TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

PERDERE LA VITA

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

 

Come assomigliamo a queste due donne che,  non potendo più dare vita, come l’emorroissa    perchè da dodici anni perde sangue, o come la figlia di Giairo – che non può ancora perchè “figlioletta che sta per morire” –  si ritrovano in una condizione di “morte apparente”. Gesù dirà, della ragazza, che “non è morta, ma sta dormendo”. Quante volte e in quante situazioni ci capita di sentirci così: incapaci di generare, creare, spostare vita in noi e fuori di noi. Queste donne si rivolgono, in modo diretto e indiretto al Maestro, chiedendo di essere salvate. Consapevoli che il primo guadagno nella vita, quando accogli Gesù è quello di non doversi più rassegnare al potere della morte. Potere che si manifesta nei pensieri che ti paralizzano e ti tolgono la speranza; potere che ti assale con la paura; potere che deprime e uccide le tue potenzialità; potere che è fare affidamento più alla morte che alla vita in tutte le sue molteplici manifestazioni quotidiane. Gesù rivolge a Giairo e a tutti noi un invito per iniziare a rinascere: “non avere paura, ma continua a fidarti della mia parola”. Anche se gli altri sorridono e deridono questo invito. Anche se pare che il maestro non è da disturbare perchè “non c’è nulla da fare”. Anche se mentre vai a casa della povera ragazza un’altra donna e un’altra storia sembrano arrestare il cammino verso il miracolo della sua guarigione. Il Signore continua a camminarti accanto e a ricominciare una storia dietro l’invito continuo a “passare verso altre rive senza paura di perdersi”. Per guarire dalla morte bisogna accettare di passare, che qualcosa si debba trasformare; bisogna dare un nome alle nostre paure che ci ingabbiano, ci imprigionano e fanno morire noi e quelli che vivono accanto a noi. E l’invito ad alzarci, presi per la mano di Gesù, diventa l’infinita possibilità, ogni volta che gli permettiamo di accostarsi al lettino delle nostre paralisi (che, anche da guariti va portato con sé), di riaccendere il miracolo della speranza che attiva in noi la voglia di vivere e  permette, ancora una volta, sempre, di attraversare le tempeste dei laghi quotidiani. E se gli altri sorridono, il Vangelo alla fine ti rivela che “ride bene chi ride per ultimo” e forse che non c’è niente da ridere, ma … soltanto da GIOIRE: “io dico, alzati!”. 

E io, da che situazione mi voglio/devo rialzare? 

DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Altre rive … altre tempeste … altra vita. 

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Sembra quasi comica (o drammatica) questa indicazione di tempo che in due parole trasforma il giorno in notte. Un contrasto. Qualcosa di inaspettato che sorprende la luminosità della notizia del piccolo seme delle parabole di domenica scorsa, che diventa il grande albero della senape e che porta frutto spontaneamente a prescindere da opere esterne dirette su di lui. Ci piaceva: illuminava la nostra speranza ascoltare parole tanto confortanti. Speranze che vivono della certezza che anche se a noi viene richiesto di operare non tutto è nelle nostre mani, e la consolante verità che la storia è un progresso, una crescita. Ma non tutto è così lineare a automatico. Nello stesso giorno viene la sera e il suo buio copre ogni cosa. Qualcosa, un granellino di imprevedibilità si trasforma in una grande tempesta che butta all’aria la nostra memoria e la nostra serena adesione al messaggio di speranza, facendoci  pensare che quel Gesù che dorme, a poppa della nave, sia uno al quale non interessa di noi, che siamo perduti. Eppure,  immancabilmente, questa è la sensazione che ci sorprende ogni volta che ci sentiamo spinti ad andare “all’altra riva”, a cambiare. 

Gesù che dorme a poppa è lo stesso che “va preso così com’è” e non secondo le nostre immaginazioni, previsioni e calcoli; è Lui che racconta la possibilità di “altro” nelle tempeste della vita, mettendoci davanti a delle profondità incondizionate quando, con sentimenti più o meno pacificati, torniamo a rivolgerci e ad affidarci alla sua Parola autorevole che comanda i terremoti dei nostri cuori. Quasi come nella forma di quella relazione con Lui che mette insieme quello che c’è dentro (Lui) con quello che c’è fuori (la nostra realtà), facendoci riscoprire la nostra vera natura di persone che vivono non perchè tutto va bene ed è sempre giorno, ma che sanno che la variabilità del tempo, dei climi e delle stagioni sono destinate a compiersi in qualcosa che possiamo solo e continuamente ricevere dal nostro contatto fiducioso con Dio, Sorgente inesauribile di vita. Ogni nostra giornata ha bisogno di ricevere il PANE QUOTIDIANO per avere la forza di compiere la nostra TRAVERSATA, che in fondo altro non è che il nome della stessa vita. La Parola di Gesù, del Crocifisso Risorto, che dorme nel silenzio di un sepolcro esattamente come tutti noi per approdare alla costa di una vita infinita, sarà la benedizione e il buon augurio in grado di trasformare le nostre angosce in azione di sollievo, per noi e per gli altri, anche questa settimana, quando saremo invitati a “passare a un’altra riva”. 

UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Piccoli semi crescono … 

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono
nell’orto; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 

Come sono liberanti le parabole e le parole di Gesù. Nessun protagonismo! Anzi! Il Regno di Dio (la presenza della logica di Gesù nella testa e nel cuore) non cresce quando ci sono delle persone che “fanno solo delle cose” (chiaramente, anche), ma quando, prima di tutto, ci sono degli uomini e delle donne disponibili che, avendo capito di essere terreno fecondo a seconda del seme che ospitano e fanno morire e nascere al loro interno, portano molto frutto e frutto di ottima qualità. E Gesù non si stanca mai di ripetere che il Padre Suo è glorificato quando la vite (la pianta, noi) porta frutto. Grande questa notizia: Dio è contento quando capita qualcosa di bello a NOI, non a Lui; ed è pieno di gloria e “al settimo cielo” se i suoi figli si fanno incontrare e ispirare dalla potenza vitale di quel seme che un uomo “getta” con grande abbondanza e … dappertutto!

Poi se il terreno accoglie, custodisce, facendosi “cura” della potenzialità di vita che ha dentro di se’,  allora capita il miracolo: “produce spontaneamente” . Questo vuol dire FARE ESPERIENZA di “altro” rispetto a me e a noi (per fortuna); vuole dire essere consapevoli che noi stessi diventiamo la storia di un seme e che viviamo solo perchè ce ne è continuamente data la possibilità: è un grande piacere, è il miracolo che fa apprezzare la sorpresa di non sapersi mai soli. Quel piacere che motiva i nostri “doveri”.  Diventare frutto, poi,  permetterà di metterci in relazione con il nutrimento e la fame di altri. E la vita diventa moltiplicazione di gesti vitali… C’è un altro elemento molto interessante nella parabola di Gesù: la pianta di senape che da semino millimetrico si trasforma in un albero di due o tre metri è una pianta dell’orto, ossia di quell’appezzamento di terra, piccolo e famigliare, che produce buon cibo per piccoli gruppi di persone: anche il Regno, nella sua capacità e sapienza trasformata, càpita nella “normale quotidianità” della vita, dove non esiste mai una linearità senza rotture, dove le nostre apparenti totalità e pienezze vengono continuamente assalite da numerose mancanze, dove la luce sembra essere sempre abitata dalle ombre … insomma, di nuovo, la normale normalità di tutti! Qui il piccolo seme, quando viene ospitato ci promette che farà produrre qualcosa di nuovo, di spontaneo, di differente e di vero diventando la storia di chi decide di rimanere con Gesù, che, come dice un canto che ormai stiamo facendo tutte le volte che celebriamo le Prime Comunioni, sfida le nostre morti e entra nel nostro buio per trasformarli in vita e luce. 

FESTA DEL CORPO DEL SIGNORE

GESÚ É IL CORPO DI DIO

 Dal Vangelo secondo Marco

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Fa sempre un po’ impressione pensare come Dio, attraverso Gesù, abbia fatto di tutto per convincerci che, dal momento in cui è venuto tra noi, avremmo avuto la possibilità di trovare la sua presenza mettendoci in relazione con la concretezza dei corpi dei fratelli. Gesù aveva buttato all’aria tutte quelle concezioni per le quali il rapporto con Dio passava attraverso dei concetti di irraggiungibilità e di impossibilità di “accesso”, perchè Dio apparteneva al mondo del “divino”, del “sacro”, del “separato” e per i poveri mortali, condannati dal loro limite e dalla loro “materialità”,  diventava una invisibile chimera. Soltanto i grandi sacerdoti, i mistici, gli inarrivabili santi avevano la possibilità di avvicinarsi con tremore grande a qualcosa che, in fondo, manco loro sapevano. La cosa che fa più impressione, dicevo,  è che, pur sapendo che le cose non stanno così, per svariati secoli addirittura la Chiesa ha impostato delle spiritualità volte maggiormente a “rappresentare” la celebrazione dell’Invisibile piuttosto della concreta responsabilità umana e vitale (senza fine) che Gesù  ha consegnato a quanti si sono messi alla sua scuola di amore e di destinazione buona e affidabile dei loro giorni. Il testamento lasciato ai dodici, durante la Festa di Pasqua, infatti, risuona nelle parole: “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.

La festa di oggi si chiama Corpus Domini perchè è la festa del CORPO DI DIO: Gesù è il corpo del Signore, la visibilità del Padre del Cielo (“chi vede me vede il Padre”); chi vede il Padre (Dio) vede un Figlio (Gesù), e chi vede noi dovrebbe vedere altri figli (il prossimo) messi al mondo da quello stesso Figlio. Figli che lo rigenerano avvicinandosi con attenzione agli affamati, agli assetati, ai bisognosi di abiti e protezioni, agli stranieri e agli spaesati nella psiche e nel cuore che stanno accanto a noi; persone che sanno che ogni gesto di amore inaugura la logica del Regno di Dio che è unico in grado di spodestare l’impero della separazione, della bellicosità, della competizione e dell’indifferenza. Figli che sperimentano come il comandamento dell’amore sia una forza legata alla circolazione di  un coinvolgimento totale tra Dio, gli altri e noi stessi, sempre e insieme ogni volta.

Ormai per il secondo anno, a causa del Covid, non si farà nessuna processione eucaristica, tuttavia l’occasione potrebbe essere propizia per pensare che andare dietro al Signore non significa solo seguire l’ostensorio tra le vie indifferenti di una città, ma vivere la consapevolezza che a portare Gesù “per le vie del mondo” siamo tutti noi, ognuno, indistintamente. Il pane si trasforma nel nostro corpo e il pane trasforma il nostro corpo affidando alla memoria costante del dono di sé la possibilità di “comunioni” nuove che passano dall’invisibile volto di Dio alla reale faccia degli uomini e delle donne. Che tornano a essere CORPI DOMINI. 

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. 
Quando lo videro, si prostrarono.
Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

E DIO CREÓ L’UOMO A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA: è tutto molto più semplice di quel pensiamo. Non si tratta neanche di mettere tutta l’acqua nel mare in una buca fatta nella sabbia, come voleva fare un Santo quando si esprimeva sul mistero di Dio… d’altronde, se è stato creato il mare ci può essere evitata questa fatica. Cosa significa dire Trinità? Significa semplicemente affermare che se vuoi parlare di Dio devi pensare non semplicemente a una persona, ma a tre! Significa che non siamo figli della solitudine, ma sempre frutto di una relazione e di una reciprocità che continuamente dà e prende vita posandosi su di noi sotto forma di soffio vitale. E noi, che siamo creati “a immagine” di Dio, possiamo avere vita solo nel nome di una circolazione di incontri, di parole, di affetto, di confronti, di condivisioni, di aperture … e tutto riparte e si rinnova. Ciò che divide è immagine diabolica, ciò che unisce, nella diversità e nella complementarietà, immagine di Dio. Noi, come Dio. Dio, come noi. 

GLI UNDICI … DUBITARONO: non so se dire se questo fatto è stupendo o ingenuo, so solo che mi piace tanto. E forse mi piace per la genuina meraviglia che solo l’amore sa suscitare. Il Risorto aveva già incontrato i suoi, li aveva ammaestrati, aveva dato loro appuntamento su un monte e fa tutto pur sapendo due cose non prive di rilevanza: erano rimasti in UNDICI … undici che sballano i calcoli di un “disegno” che sembrava perfetto nella “rappresentatività” di tutto il popolo eletto con le sue tribù, che si sfascia con il tradimento di Giuda che fugge e si toglie la vita e con l’abbandono di tutti i discepoli. Undici forse è anche il nostro “nome”, perchè anche noi siamo come i discepoli. Quante volte “in fuga” dalla sorgente della vita. Quante volte “lontani dal tuo volto” … una trinità molto sconclusionata nei suoi effetti, un multiplo rotto e indivisibile, trasformato nella solitudine di un numero primo; e poi, insomma, questa è grossa: l’evangelista Matteo scrive che “tutti dubitarono”. Tutti! “Essi però dubitarono”! Bene! E allora non ci resta che congedarci e ricominciare tutto da capo, magari anche con altri un po’ più intelligenti, volenterosi, capaci, “Number one”? Macché! Gesù agli “undici dubitanti” dice: “andate DUNQUE(!) … “. La diffusione del Lieto Evento è affidato a mani, bocche, piedi, voci così. Con il Maestro. In trinitaria compagnia e in respirazioni di folate di Venti impetuosi riempi-polmoni.

INSEGNATE A OSSERVARE: e qui ci siamo! Non si tratta di fare nessun discorso, ma di lasciare dei segni profondi (in-segnare) che nascono dall’osservazione di quello che capita quando si vive il comandamento dell’amore e della prossimità: degli esorcismi anti morte, dei veleni che non uccidono, delle mani che si intrecciano, dei serpenti che vengono schiacciati e resi senza potere di assassinio …  come faceva il MAESTRO, l’insegnante per eccellenza che LASCIAVA SEGNI PROFONDI NEL CUORE DI CHI LO OSSERVAVA E LO ASCOLTAVA: “Chi vede me vede il Padre”. E … chi vede me cosa vede? 

A Livorno i portuali evitano carico di armi per Ashdod

 

La Mobilitazione. La protesta contro la nave Asiatic Island che sta arrivando in Israele. Il rappresentante dei lavoratori dell’Usb: abbiamo chiesto cosa trasportasse, nessuna risposta. Una rete fra i porti contro chi trasporta armi

La portacontainer Asiatic Island ieri sera stava costeggiando Cipro e oggi dovrebbe giungere al porto israeliano di Ashdod. Sul carico che trasporta ci sono pochi dubbi: armi ed esplosivi per l’esercito di Netanyahu. Non sappiamo invece cosa dovesse caricare nella sua sosta a Livorno di venerdì. Una tappa tenuta segreta, «rovinata» dalla protesta dei portuali che ha evitato qualsiasi carico di armi.
Come era già successo nei mesi scorsi grazie ai portuali di Genova con le navi saudite cariche di armi per la guerra in Yemen, la mobilitazione dei lavoratori ha bloccato ogni carico. «Non sappiamo che cosa era previsto caricassero – spiega Massimo Mazza, rsu dell’Usb dei portuali di Livorno – ma di sicuro la nostra mobilitazione ha fatto saltare i piani e reso pubblica la notizia dell’attracco della nave: è servita a bloccare qualsiasi movimento e ha smosso le coscienze in tutta la cittadinanza in solidarietà del popolo palestinese».
La nave Asiatic Island, battente bandiera di Singapore e partita il 6 maggio da Haifa per arrivare a Marsiglia dove è stata caricata per poi fermarsi a Genova, è attraccata alla darsena Toscana del porto di Livorno venerdì mattina. La protesta dei portuali di Livorno ha ridotto la sua sosta: già a mezzanotte è ripartita per Napoli. «Abbiamo chiesto alla società portuale, alla capitaneria che cosa trasportasse ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta», denuncia Mazza.
Con il Collettivo autonomo lavoratori portuali di Genova, i compagni di Livorno e di altri porti italiani e europei stanno creando una rete per impedire l’attracco e il carico delle navi che trasportano armi nei porti civili. Una pratica consolidata che la lotta dei portuali ha portato allo scoperto e resa molto più complessa. Autore:  

Massimo Franco

DOMENICA E SETTIMANA DI PENTECOSTE

PARLIAMO DI … ARIA 

 

Dagli Atti degli Apostoli

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria
lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». 

É un po’ difficile parlare di aria, perchè non si vede, ma è anche vero che se non ci fosse l’aria noi non potremmo vedere e non potremmo parlare. 

Dico questo perchè la Festa della Pentecoste è la Festa del Dono dello Spirito Santo, e lo Spirito è ARIA, respiro, vento che scombussola, che riempie le vele di chi si lascia investire dalla sua dirompente carica vitale. Quella carica che connette l’intelligenza, la memoria, le parole e le azioni all’unica Fonte della Vita, quella eterna, indistruttibile senza fine – che incomincia ORA e non post mortem! – ogni volta che compiamo un atto di affidamento al Dio della vita, cioè Colui che l’ha creata e la conosce. Non lo vediamo. Ma lo sentiamo. Non lo tocchiamo, ma ci tocca e ci trasforma da dentro. 

Noi abbiamo la brutta tendenza a relegare nell’inesistente le cose che non vediamo e non tocchiamo. Però, a pensarci bene il nostro vedere è il risultato, il frutto, l’ultimo scalino di un mucchio di altre cose che stanno prima. E a pensarci bene il senso di tutto dipende da cose che non si vedono se non quando accadono e sono in alleanza con la concretezza del nostro IO e delle scelte che si fanno. Non esisteremmo senza l’invisibile amore, non vivremmo delle relazioni sane se qualcuno non decidesse di vivere l’invisibile pace, non saremmo al mondo senza respirare l’invisibile aria (che sappiamo a cosa porta quando non è buona). Sta a vedere che l’Invisibile Spirito di Dio non sia proprio la strabiliante sfida rivoluzionaria che ci propone il Signore stesso di credere un po’  di più a quello che non vediamo ancora piuttosto che imprigionarci in tutte quelle forme visibili alle quali affidiamo la nostra vita,  ma che hanno veramente ben poco di vitale, buono e creativo per i nostri  giorni di calura e sete?

E allora proviamo a spalancare le finestre. Proviamo a sederci, a chiudere gli occhi, e chiedere il DONO di questo Spirito Santo perchè  possa essere quel vento che si abbatte impetuoso sulle nostre prigionie, sugli arresti endemici, sui veleni che infestano i nostri cuori e le nostre parole, che sappia suscitare ancora una volta la possibilità di reimparare l’unica LINGUA NATIVA che tutti quanti capiscono e che è la lingua dell’amore. Mentre leggevo l’elenco di tutte quelle popolazioni (Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi) mi venivano in mente le immagini del Tg di questi giorni, che ci fanno vedere uomini disperati che cercano approdo su coste accoglienti in grado di dare vite e possibilità nuove … tra loro ci sono tanti che appartengono a quei ceppi linguistici e di popolo. Guardo e mi dico … “abbiamo dimenticato la lingua nativa” dell’amore, del rispetto, trasformando la terra in un luogo inospitale, terrorizzato, nella Babele dei nostri interessi particolari. Ma la barca, quel canotto che si sgonfia e fa tante vittime è un segno che ci ricorda che ci si salva o si va a picco tutti insieme. E se tutti muoiono, cosa te ne fai di vegetare nel tuo piccolo bunker antiatomico?  Vieni Santo Spirito, soffia su di noi,  abbiamo tanto bisogno di Te!