XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO, anno C

 Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Per capire la domanda degli apostoli: “accresci in noi la fede”, dobbiamo riandare alla vertiginosa proposta di Gesù un versetto prima: se tuo fratello commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte al giorno ritornerà a te dicendo: “sono pentito”, tu gli perdonerai. Sembra una missione impossibile, ma notiamo le parole esatte. Se tuo fratello torna e dice: sono pentito, non semplicemente: “scusa, mi dispiace” (troppo comodo!) ma: “mi converto, cambio modo di fare”, allora tu gli darai fiducia, gli darai credito, un credito immeritato come fa Dio con te; tu crederai nel suo futuro. Questo è il perdono, che non guarda a ieri ma al domani; che non libera il passato, libera il futuro della persona.Gli apostoli tentennano, temono di non farcela, e allora: “Signore, aumenta la nostra fede”. Accresci, aggiungi fede. È così poca! Preghiera che Gesù non esaudisce, perché la fede non è un “dono” che arriva da fuori, è la mia risposta ai doni di Dio, al suo corteggiamento mite e disarmato. «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “sradicati e vai a piantarti nel mare” ed esso vi obbedirebbe». L’arte di Gesù, il perfetto comunicatore, la potenza e la bellezza della sua immaginazione: alberi che obbediscono, il più piccolo tra i semi accostato alla visione grandiosa di gelsi che volano sul mare! Ne basta poca di fede, anzi pochissima, meno di un granello di senape. Efficace il poeta Jan Twardowski: «anche il più gran santo/ è trasportato come un fuscello/ dalla formica della fede».

Tutti abbiamo visto alberi volare e gelsi ubbidire, e questo non per miracoli spettacolari – neanche Gesù ha mai sradicato piante o fatto danzare i colli di Galilea – ma per il prodigio di persone capaci di un amore che non si arrende. Ed erano genitori feriti, missionari coraggiosi, giovani volontari felici e inermi.

La seconda parte del vangelo immagina una scena tra padrone e servi, chiusa da tre parole spiazzanti: quando avete fatto tutto dite “siamo servi inutili”.

Guardo nel vocabolario e vedo che inutile significa che non serve a niente, che non produce, inefficace. Ma non è questo il senso nella lingua di Gesù: non sono né incapaci né improduttivi quei servi che arano, pascolano, preparano da mangiare. E mai è dichiarato inutile il servizio. Significa: siamo servi senza pretese, senza rivendicazioni, senza secondi fini. E ci chiama ad osare la vita, a scegliere, in un mondo che parla il linguaggio del profitto, di parlare la lingua del dono; in un mondo che percorre la strada della guerra, di prendere la mulattiera della pace. Dove il servizio non è inutile, ma è ben più vero dei suoi risultati: è il nostro modo di sradicare alberi e farli volare. (E. Ronchi)

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

CANI, ABISSI E SGUARDI

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Abissi: Chi non accoglie l’altro, in realtà isola se stesso, è lui la prima vittima del “grande abisso”, dell’esclusione. Lo scrive a ragione Ronchi, ricordandoci che il destino delle nostre separazioni è proprio la separazione, la divisione e l’isolamento progressivo di chi si stacca dal mondo, dagli altri, da Dio e … infine da se stesso. Chi divide è colui che stabilisce il grande abisso invalicabile che crea l’inferno, perchè, fino a prova contraria, il signore della divisione è il diavolo. Principio distruttivo di autocontorcimento che distruggendo il fratello distrugge se stesso e tutto il mondo. Abramo  dice al ricco uomo del banchetto: “tra noi e voi è posto un grande abisso”, ma è posto da chi vede poco da vicino e vede molto da lontano, da chi fa la carità a quelli che abitano a 10.000 km da casa sua e rifugge indifferentemente il volto del povero che è alla porta di casa sua. Per RIEMPIRE IL VUOTO la sola strada è USCIRE da se stessi, per recuperare l’umano che è comune e imparare e scoprire la propria anima divina che FA AGLI ALTRI QUELLO CHE VUOLE SIA FATTO A LEI. 

Cani: terribile ed estremamente tenera l’immagine dei soli che portano un po’ di conforto al povero Lazzaro: i cani che gli leccano le piaghe. Un unguento di umanità scende sulle ferite di un povero apparentemente disgraziato dalla lingua degli animali, che, contrariamente a quanto proclama il nostro linguaggio comune, ci insegnano che cosa significhi essere umani: lenire le sofferenze di chi vive accanto a noi, dal nostro piccolo e dal nostro essere, da un organo piccolo come la lingua che si staglia contro le ingiustizie del mondo indossate dall’abito di ferite del povero mendicante. E una leccata di una cara bestiolina diventa un gesto rivoluzionario pieno di amore. 

Indifferenza: solo il desiderio di fare la differenza a partire dall’amore può distruggere l’impero del menefreghismo. Il ricco non danneggia Lazzaro, non gli fa del male. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, a un nulla. L’indifferenza è un’arma che distrugge la fraternità, l’umanità e rende tutto appiattito e senza uscita. Papa Francesco lo ricorda: la piaga più grande che impedisce di realizzare un mondo nuovo e un mondo di pace è solo una: la globalizzazione dell’indifferenza. 

Questa settimana usciamo, portiamo a spasso questo cagnolino pieno di compassione e proviamo ad aprire gli occhi per vivere la differenza in grado di sconfiggere le nostra indifferenza. 

ISCRIZIONI A CATECHISMO 2022/2023

Pubblichiamo gli orari di iscrizione al Catechismo per il nuovo anno pastorale.

Come gli scorsi anni, per ogni annualità ci si iscrive dopo la Messa delle 10,30: ci si ferma in Chiesa e verranno distribuiti i moduli di iscrizione, ci salutiamo, spieghiamo il senso del cammino che ci aspetta, e … ripartiamo!

PRIMA ELEMENTARE: a fine dicembre. 

SECONDA ELEMENTARE: a fine dicembre. 

TERZA ELEMENTARE:CELEBRAZIONE DEL  SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE

DOMENICA 2 ottobre: Messa delle 10,30  + riunione con i genitori 

QUARTA ELEMENTARE: CELEBRAZIONE DEL SACRAMENTO DELL’EUCARESTIA

DOMENICA 9 ottobre: Messa delle 10,30 + Riunione con i genitori 

QUINTA ELEMENTARE

DOMENICA 16 ottobre: Messa delle 10,30 + Riunione con i genitori 

CORSO IN PREPARAZIONE ALLA CELEBRAZIONE DELLA CRESIMA

DOMENICA 23 ottobre: dalla prima, seconda e terza media. 

Messa delle 10,30 + Riunione con i genitori. 

Per fare la Cresima occorre avere frequentato i 3 anni, che non coincidono necessariamente con le  classi delle scuole medie. 

Chi arriva da altre parrocchie deve portare il certificato di frequenza del Catechismo da dove proviene e deve frequentare il secondo e il terzo anno. Se non ha mai frequentato dopo la Comunione inizierà dalla prima annualità. 

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

POSSEDUTI DAI NOSTRI POSSESSI 

 

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te?
Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno.
So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire Dio e la ricchezza».

 

Il brano del Vangelo di oggi termina  dichiarando che non si può servire Dio e la ricchezza. In realtà nel testo greco si parla di Mammona, ossia dell’illusione menzognera  che le ricchezze portano al cuore dell’uomo sostituendole con la vera ricchezza, che non è quella del possesso delle cose, ma la fioritura delle nostre relazioni in gesti di amore e di fraternità. E di solito, per diventare molto ricchi, lo sappiamo, dobbiamo rinnegare la strada dell’umanità e del rispetto degli altri per intraprendere dei percorsi che portano alla chiusura, all’ingiustizia e al rinnegamento dei diritti di tutti, a favore dell’ingiusto usufrutto di poche persone di tutte le risorse del mondo. Questa non è ricchezza, anzi! É impoverimento della terra, sfruttamento, concentrazione e concertazione indebita dei flussi delle potenzialità umane soltanto nelle tasche di un piccolo numero di uomini. No! Fino a quando ci sarà un’idea così non solo si rifiuterà Dio, ma si provocherà anche la distruzione del mondo che Lui ha creato e ha messo nelle nostre mani. Il Vangelo oggi ci propone allora tre riflessioni a mio parere interessanti per rendere le parabole di Gesù “parlanti” al nostro cuore: 

  1. Rendi conto della tua amministrazione. Tutti noi siamo amministratori. Almeno delle nostre potenzialità, delle nostre vite, dei nostri talenti e delle nostre risorse. Arriva un momento nella vita nel quale questa domanda comincia a risuonare nella nostra testa. Ossia: “come sto amministrando i miei giorni?”. Non sempre le risposte ci lasciano la tranquillità per dormire sonni tranquilli, perchè nel momento in cui prendo in mano il senso delle cose allora, anche davanti al fallimento, capisco che mi devo ancora rimboccare le maniche per sostituire al chiacchiericcio e alle critiche una mia risposta e un mio coinvolgimento personale in grado di riorganizzare le mie risorse a favore del mondo, di quanto sta al di fuori di me. Come sta andando l’amministrazione della mia vita? L’amministratore del Vangelo decide di passare dall’interesse delle cose all’interesse per le persone. Non sarà anche questa, per me, la possibilità di ristabilire il senso della gestione del mio tempo? 
  2. Il padrone lodò il suo amministratore perchè aveva agito con scaltrezza. E aveva anche agito subito. Il padrone loda il suo contabile non perchè era un ladro o per l’astuzia, ma per la prontezza all’azione. Nel Vangelo – se noi crediamo in Dio –  non c’è spazio per le paralisi e per le rinunce. Si riparte. Con coraggio. Pieni di speranza. La risposta al nostro peccato, ai nostri errori, alle nostre strade sbagliate non è l’autocommiserazione, ma la pronta decisione di cambiare: Gesù è venuto per guarirci e per farci camminare. La sua Parola e il suo Spirito sono il nostro mobiletto dei farmaci per lenire le nostre ferite, fasciare le nostre infezioni e … guarire. Viene in mente Isaia che al cap. 35 scrive: “3 Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. 4 Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio … Egli viene a salvarvi»”.
  3. Non potete servire Dio e la ricchezza. No! Non si serve “mammona”, ma si serve Dio che è la vera ricchezza, che è la nostra capacità di diventare signori non da soli, ma insieme alle persone che la storia ha “consegnato” nelle nostra mani, perchè da individui si trasformino in prossimi e fratelli. Ogni mattina, chiediamocelo: “oggi, come voglio amministrare il capitale che mi è stato affidato?” L’amore per Dio e per il prossimo (e per me stesso) è fondamento di ogni cosa, ce lo ricorda anche la preghiera di colletta. 

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

PECORE, MONETE E FIGLI

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Domenica scorsa Gesù diceva, a chi lo seguiva, che se non amava Lui più della madre, del padre, delle sorelle, dei fratelli, di tutti e addirittura della propria vita non poteva essere suo discepolo. Abbiamo capito che la sua richiesta non era per dare meno a qualcuno e di più a Lui, ma per trovare quella pienezza in grado di nutrire e dare forza al nostro amore, che è tale solo perchè è sempre totale. Solo che la totalità non è facile da supportare e sopportare, per questo ci va grande attenzione per Colui che è in grado di offrire pienezza continua a chi lo rende Signore della propria vita e in grado di amare non solo a parole.

Interessante diventa allora  il Vangelo di oggi, che forse doveva essere letto come introduzione a quello della scorsa domenica, dove emerge una cosa bellissima: Gesù che ti chiede di amarlo di più, è anzitutto Colui che per primo ama te più di tutti gli altri, nella tua singolarità, e lo racconta con l’esempio del pastore che va alla ricerca della pecora smarrita e della donna che perde la moneta e si mette a cercarla affannosamente, oppure del Padre che aspetta il ritorno del figlio per farlo riappropriare di tutta la sua dignità, della sua vita e del suo posto nel mondo. 

Cercare, trovare … la Storia della salvezza inizia con la ricerca di Dio che non vede Adamo ed Eva nel giardino perchè si erano nascosti, e domanda loro: “Adamo, Eva, dove siete?” … Oggi lo fa anche con noi: “Luigi, dove sei? Perchè ti nascondi? Perchè non hai fiducia in me?” … se avrò il coraggio di uscire dal cespuglio dietro il  quale mi sono rintanato, trovando il Padre ritroverò anche me stesso, perchè la cosa che a volte non capiamo, è che tutto quello che noi facciamo per Dio, o meglio, Gli permettiamo di fare a noi, non è per Lui, non ne ha bisogno, ma esclusivamente per noi. 

E allora torniamo in questo abbraccio che continua a cercarci, non ne saremo delusi, anzi, la nostra vita si riprenderà e troverà una nuova identità. Il pastore continua a cercare. La brava massaia continua a mettere sottosopra la casa, il Padre mi aspetta sul ciglio della strada di casa: “DOVE SEI?” … “DOVE SONO?”. 

 Concludo con le parole sempre altamente poetiche – e dunque realistiche – di Ermes Ronchi: “Il Padre che tutto abbraccia è ridotto ad essere nient’altro che questo: braccia eternamente aperte, ad attenderci su ogni strada d’esilio, su ogni muretto di pozzo in Samaria, ai piedi di ogni albero di sicomoro: la casa del Padre confina con ogni nostra casa. È “giusto” il Padre in questa parabola? No, non è giusto, ma la giustizia non basta per essere uomini e tanto meno per essere Dio. La sua giustizia è riconquistare figli, non retribuire le loro azioni. L’amore non è giusto, è una divina follia. La parabola racconta un Dio scandalosamente buono, che preferisce la felicità dei suoi figli alla loro fedeltà, che non è giusto ma di più, è esclusivamente buono”.

VENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO . C

I CUSTODI DEL FUOCO

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Fuoco e divisione sono venuto a portare. Vangelo drammatico, duro e pensoso. E bellissimo. Testi scritti sotto il fuoco della prima violenta persecuzione contro i cristiani, quando i discepoli di Gesù si trovano di colpo scomunicati dall’istituzione giudaica e, come tali, passibili di prigione e morte. Un colpo terribile per le prime comunità di Palestina, dove erano tutti ebrei, dove le famiglie cominciano a spaccarsi attorno al fuoco e alla spada, allo scandalo della croce di Cristo.

Sono venuto a gettare fuoco sulla terra. Il fuoco è simbolo altissimo, in cui si riassumono tutti gli altri simboli di Dio, è la prima memoria nel racconto dell’Esodo della sua presenza: fiamma che arde e non consuma al Sinai; bruciore del cuore come per i discepoli di Emmaus; fuoco ardente dentro le ossa per il profeta Geremia; lingue di fuoco a Pentecoste; sigillo finale del Cantico dei Cantici: le sue vampe sono vampe di fuoco, una scheggia di Dio infuocata è l’amore.

Sono venuto a gettare Dio, il volto vero di Dio sulla terra. Con l’alta temperatura morale in cui avvengono le vere rivoluzioni.

Pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma divisione. La pace non è neutralità, mediocrità, equilibrio tra bene e male. “Credere è entrare in conflitto” (David Turoldo). Forse il punto più difficile e profondo della promessa messianica di pace: essa non verrà come pienezza improvvisa, ma come lotta e conquista, terreno di conflitto, sarà scritta infatti con l’alfabeto delle ferite inciso su di una carne innocente, un tenero agnello crocifisso.

Gesù per primo è stato con tutta la sua vita segno di contraddizione, “per la caduta e la risurrezione di molti” (Luca 2,34). Conosceva, come i profeti antichi, la misteriosa beatitudine degli oppositori, di chi si oppone a tutto ciò che fa male alla storia e ai figli di Dio. La sua predicazione non metteva in pace la coscienza di nessuno, la scuoteva dalle false paci apparenti, frantumate da un modo più vero di intendere la vita. 

La scelta di chi perdona, di chi non si attacca al denaro, di chi non vuole dominare ma servire, di chi non vuole vendicarsi, di chi apre le braccia e la casa, diventa precisamente, inevitabilmente, divisione, guerra, urto con chi pensa a vendicarsi, a salire e dominare, con chi pensa che vita vera sia solo quella di colui che vince.

Come Gesù, così anche noi siamo inviati a usare la nostra intelligenza non per venerare il tepore della cenere, ma per custodire il bruciore del fuoco (G. Mahler), siamo una manciata, un pugno di calore e di luce gettati in faccia alla terra, non per abbagliare, ma per illuminare e riscaldare quella porzione di mondo che è affidata alle nostre cure.  

(E. Ronchi) 

XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO, C

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?».
Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più»

Il fondale unico su cui si stagliano le tre parabole (i servi che attendono il loro signore, l’amministratore messo a capo del personale, il padrone di casa che monta la guardia) è la notte, simbolo della fatica del vivere, della cronaca amara dei giorni, di tutte le paure che escono dal buio dell’anima in ansia di luce. È dentro la notte, nel suo lungo silenzio, che spesso capiamo che cosa è essenziale nella nostra vita. Nella notte diventiamo credenti, cercatori di senso, rabdomanti della luce. L’altro ordito su cui sono intesse le parabole è il termine “servo”, l’autodefinizione più sconcertante che ha dato di se stesso. I servi di casa, ma più ancora un signore che si fa servitore dei suoi dipendenti, mostrano che la chiave per entrare nel regno è il servizio. L’idea-forza del mondo nuovo è nel coraggio di prendersi cura. Benché sia notte. Non possiamo neppure cominciare a parlare di etica, tanto meno di Regno di Dio, se non abbiamo provato un sentimento di cura per qualcosa.

Nella notte i servi attendono. Restare svegli fino all’alba, con le vesti da lavoro, le lampade sempre accese, come alla soglia di un nuovo esodo (cf Es 12.11) è “un di più”, un’eccedenza gratuita che ha il potere di incantare il padrone.

E mi sembra di ascoltare in controcanto la sua voce esclamare felice: questi miei figli, capaci ancora di stupirmi! Con un di più, un eccesso, una veglia fino all’alba, un vaso di profumo, un perdono di tutto cuore, gli ultimi due spiccioli gettati nel tesoro, abbracciare il più piccolo, il coraggio di varcare insieme la notte. 

Se alla fine della notte lo troverà sveglio. “Se” lo troverà, non è sicuro, perché non di un obbligo si tratta, ma di sorpresa; non dovere ma stupore.

E quello che segue è lo stravolgimento che solo le parabole, la punta più rifinita del linguaggio di Gesù, sanno trasmettere: li farà mettere a tavola, si cingerà le vesti, e passerà a servirli. Il punto commovente, il sublime del racconto è quando accade l’impensabile: il padrone che si fa servitore. «Potenza della metafora, diacona linguistica di Gesù nella scuola del regno» (R. Virgili).

I servi sono signori. E il Signore è servo. Un’immagine inedita di Dio che solo lui ha osato, il Maestro dell’ultima cena, il Dio capovolto, inginocchiato davanti agli apostoli, i loro piedi nelle sue mani; e poi inchiodato su quel poco di legno che basta per morire. Mi aveva affidato le chiavi di casa ed era partito, con fiducia totale, senza dubitare, cuore luminoso. Il miracolo della fiducia del mio Signore mi seduce di nuovo: io credo in lui, perché lui crede in me. Questo sarà il solo Signore che io servirò perché è l’unico che si è fatto mio servitore.

(E. Ronchi)