RACCOLTA SABATO 20 E DOMENICA 21
Corso Piave, 71/b – 12051 Alba Cn
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Ci piace Nicodemo che “nella notte si alza” per andare a parlare con Gesù.
Nicodemo rappresenta le nostre notti, le nostre nostalgie, il nostro desiderio di incontrare luce, anzi, La Luce! É facile credere quando si è abbagliati, più difficile quando si brancola al buio. Eppure Gesù dona a Nicodemo (noi) delle “istruzioni” per ricomprendere il senso del nostro legame con Lui anche nella notte.
“Il Signore è la luce che vince la notte“, ce lo ripetiamo cantandolo tutte le domeniche, ma poi … chissà perchè, la memoria fa cilecca e cerchiamo surrogati di fiammiferi e luci smorte che poco illuminano e fanno camminare. Roba che non ci accende e, soprattutto, non si accende!
Rinascere dall’alto … una parola! Eppure è bella la sfida che viene proposta a Nicodemo per diventare creatura nuova e capire il messaggio del Creatore. Rinascere vuol dire “passare da un mondo all’altro”, abbandonare il luogo che ci proteggeva e magari ci paralizzava per trovarne uno nuovo. Non basta nascere, bisogna partorirsi, permettere che Qualcuno ti prenda con le Sue Mani e ti ponga in una condizione nuova del cuore. Il bambino per nascere ha bisogno di lasciare la comoda e protettiva pancia della mamma. Anche noi. Si nasce quando si ha il coraggio di rialzare lo sguardo. Si nasce quando non ci si accontenta e non ci si fa arrestare dalle situazioni e dalle circostanze che vorrebbero paralizzarci. Si nasce quando si ricomincia a donare qualcosa di noi stessi, o, meglio ancora, tutto noi stessi nel totale coinvolgimento della mente, del cuore, delle forze e dell’intelligenza per restituire la vita che ci ha donato il Vangelo accolto. Perchè ascoltare significa anzitutto “farci salvare dalla promessa di Dio”: la vita è accoglienza, scelta di cosa accogliere (ma cosa ci sta guidando??) per potere continuare a sperare, a credere, ad amare … a nascere prima di morire, perchè la vita non è solo dopo la morte, ma inizia qui …
E poi farci illuminare, perchè credere significa ospitare una luce grande nel nostro cuore, luce che può sembrare tenera fiammella ma che il vangelo ci chiede di custodire “con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze e con tutto se stessi” …
E la Croce, segno della fedeltà a questa speranza che diventa il coraggio di donarsi, da apparente strumento di morte diventa il segno della ripartenza della vita. Questa è la promessa di Gesù che ci sta portando verso Pasqua.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Non siamo abituati a pensare Gesù nella veste di colui che si arrabbia e fa dei gesti così potenti come quelli del Tempio. Non ne può più di vedere persone che si impossessano del divino e trattano Dio come un oggetto con il quale fare delle contrattazioni economiche per avere ciò che si vuole. La cosa che colpisce di più è la sua grande franchezza, che altro non è che quella ammirabilissima capacità di pagare in prima persona per le proprie scelte, talmente preso da quello che vuol fare da dare letteralmente la vita in prima persona fino a morire su una croce, senza farsi sostituire da nessun altro. Colpisce, colpisce tanto che un uomo possa fare delle cose del genere, sapeva che l’avrebbe pagata, che si sarebbero vendicati per questa nuova visione sconvolgente su Dio, sulla fraternità, sul modo di vivere nel mondo. Eppure Gesù continua imperterrito il suo cammino a Gerusalemme per manifestare la verità del volto di Dio a favore dei fratelli. Il Tempio, che era un sistema studiato di posti da oltrepassare a seconda delle qualifiche, del genere, delle disponibilità finanziarie si trasforma diventando il Corpo di Gesù, e quelli che erano “maledetti” a cause delle loro “imperfezioni” si trasformano nei “preferiti” agli occhi del Padre, sovvertendo tutto l’ordine delle cose: ciechi, zoppi, peccatori, sono quelli più autorizzati ad accedere, ogni volta che lo vogliono, al Santo dei Santi.
Ora sta a noi fare funzionare il Vangelo nella nostra vita. Paolo, nella Prima lettera di Corinzi ricorda: ““non sapete che voi siete il tempio dello Spirito Santo e siete il nuovo Santuario ed è santo il Tempio di Dio che siete voi”? Gesù ospita la presenza del Padre. Noi ospitiamo la presenza di Gesù in noi ospitando i fratelli e coloro ai quali ci facciamo prossimi. Lo Spirito e la Verità lavorano là dove ci sono cuori aperti e disponibili.
E noi, di chi siamo tempio?
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti. (Vangelo di Marco)
La Quaresima è un viaggio: domenica scorsa siamo partiti dalla pianura del deserto – dove satana tentava Gesù cercando di mettere in forse le sue intenzioni e la sua “mappa” dell’itinerario di una vita affidata al Padre e donata ai fratelli – per arrivare, oggi, a un monte, un alto monte – segno di capacità di “elevazione” di sguardi e orizzonti – dove tre discepoli fanno una esperienza più profonda della verità del Signore.
Viaggiare verso la cima di un monte e goderne la meta comporta almeno tre movimenti: salire, restare e scendere. Tre movimenti che, a ben pensare, appartengono a tutte le dinamiche delle scelte che facciamo quotidianamente.
C’è un salire che è fatica, che è rinuncia di altre strade, che è affrontare l’imprevisto, ma che è assolutamente imprescindibile per raggiungere la meta. Dopo la fatica, però, si gode del traguardo raggiunto e occorre stare per guardare, percepire, imparare, assumere, contemplare e “fare qualcosa” del bellissimo luogo che si è raggiunto grazie al proprio impegno. E infine, bisogna scendere. La discesa dal monte – e più in alto si va più la sensazione di infinito e bellezza è ampia – a volte è addirittura più faticosa della salita, perchè dobbiamo “portare in basso” quello che abbiamo “visto in alto”, moltiplicare per altri quello che abbiamo visto per noi, condividere in concretezza quello che ci sembrava la promessa di un paradiso troppo lontano dalla realtà. Eppure, questo è il viaggio, e proprio così Gesù è stato l’autentico Maestro che ha portato la presenza del Padre nella concretezza irripetibile della nostra carne.
Il “viaggio-quaresima” diventa anche per noi l’opportunità irripetibile, in questo anno, per rivedere le nostre mappe personali: dove stiamo camminando? Chi ci sta guidando? Chi seguiamo? Cosa vogliamo? Per chi viviamo? Ci dirigiamo verso la vita della Pasqua che moltiplica altra vita o camminiamo per un semplice “andare senza direzioni”? Siamo fortunati, se ci rimettiamo sul sentiero, “presi e condotti da Gesù”: capiremo cosa significhi ogni giorno “risorgere dai morti”!
Una prima modifica consiste nell’introduzione della congiunzione “anche”: rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori.
Prima di commentare il senso di questa aggiunta, occorre precisare che rimettere i debiti significa perdonare i peccati ed il perdono dei peccati è un atto che va oltre la nostra umanità.
Antony De Mello(1), scrittore nato a Mombay, ha detto una volta: “le tre cose più difficili per un essere umano non sono attributi fisici o capacità intellettuali. Sono queste: primo, restituire amore in cambio di odio; secondo, coinvolgere gli esclusi; terzo, ammettere di avere torto”.
Dunque, restituire amore in cambio di odio, ovverosia perdonare le offese, è un atto che possiamo compiere solo con l’aiuto di Dio.
Nella preghiera del Padre nostro la congiunzione “anche” rafforza la presenza del Signore nella fatica assunta dall’essere umano a perdonare.
Perdoniamo insieme, con l’aiuto del Padre nostro e così recitiamo: Padre perdona a noi come anche noi perdoniamo insieme a te e come te. Imploriamo la Tua misericordia, consci che essa non può giungere al nostro cuore, se non sappiamo perdonare anche noi ai nostri nemici, sull’esempio e con l’aiuto del Padre.
Il perdono reso possibile dall’aiuto di Dio, con l’aggiunta della congiunzione “anche”, ritrova ulteriore completezza. Infatti, la congiunzione “anche” racchiude sia umiltà che reciprocità, oltre a risultare una fonte di unità e d’inclusione.
“Anche” viene a rinforzare l’umiltà, perché perdonare non è una prerogativa umana se non attraverso Cristo, non è un atto della nostra umanità, occorre sperimentarlo per viverlo con l’aiuto di Dio, per provare la pace dentro e fuori di noi ed insieme ai fratelli.
Ecco che la parola ci invita a superare umilmente la nostra umanità quando ci esorta: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5,23).
La congiunzione “anche” è “reciprocità” perché non è mai a senso unico: come giudico me stesso e come desidero il perdono per me stesso, così giudicherò anche gli altri e sarò disponibile ugualmente al perdono.
Tolta l’offesa e il suo veleno, ognuno va per la propria strada?
Nella preghiera del Padre nostro la cancellazione dell’offesa, anche se non è necessariamente l’oblio dell’episodio doloroso, porta alla nascita di un nuovo scenario. Ecco dove la congiunzione “anche” diventa unità.
L’avvicinamento e il riconoscimento della similitudine nella condizione umana genera l’unità che supera ogni conflitto, lascia posto alla fratellanza.
Ecco dove la congiunzione “anche” acquista potenza dilagante dell’amore che diventa inclusione: nella misura con la quale saprò perdonare sarò perdonato perché, per riprendere il titolo di questa pagina, “siamo tutti sulla stessa barca”.
Tutte le volte che ci rivolgiamo al Signore attraverso la preghiera del Padre Nostro pronunciando “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” attuiamo un rinnovamento di cammino di riconciliazione con i fratelli che culmina con l’unità che non lascia nessuno indietro, soprattutto in questo preciso momento qualificato da Papa Francesco come tempo della domanda ai fratelli: “di cosa hai bisogno e risolvere”, proprio perché nessuno si salva da solo. Soprattutto quando “Siamo tutti sulla stessa barca”.
(1) Antony De Mello (2019) – Messaggio per un’aquila che si crede un pollo. Ed. Pickwick.
Caterina Pasini e Anselme Bakudila
La risposta è: trarre lezioni, prendere posizione e, dove possibile, intervenire.
“Un viaggiatore in poppa ad una nave non direbbe non sono fatti miei, quando i passeggeri in prua alla stessa imbarcazione gridano aiuto alla vista di un foro da cui entra l’acqua”
Papa Francesco, durante l’intervista dal titolo “Il mondo che vorrei”, andata in onda il 10 gennaio 2021 su Canale 5, esorta il mondo a uscire migliori dalla crisi odierna, evitando la doppia sconfitta, quella legata alla crisi in sé e quella di uscirne peggiori, semmai ritornassimo a condurre la vita come prima.
I grandi valori, afferma il Pontefice, ci sono sempre e sono insiti nella cultura. Non cambiano mai nella storia: ciò che cambia è l’espressione degli stessi valori con la cultura del momento.
Guerre, distruzione, ingiustizia sociale, egocentrismo – detto anche “IO” che prevale sul “NOI”, la cultura dello scarto, ossia considerare inutili coloro che non producono profitto (anziani, ammalati, bambini, immigrati bisognosi) e si scartano… sono gesti e comportamenti che generano l’allontanamento tra le persone. La cultura dell’indifferenza, “il sano menefreghismo”, non è in nulla “sana”.
La risposta – almeno una delle risposte- che ci porta a uscire migliori dalla pandemia è la cultura della fratellanza. La fratellanza non è il club degli amici, non vuole dire una creazione di un circolo esclusivo di amici, ma è inclusione. È la capacità di seminare la speranza, di ritrovare un senso di comunità e viverla insieme.
La comunità è consapevole di essere tutti sulla stessa barca da interdipendenti e, come dice Papa Francesco,” nessuno si salva da solo” .
Ci salveremo tutti insieme o non si salverà nessuno.
La pagina “Sulla stessa barca” si guarda intorno, vuole entrare con rispetto ma in maniera dirompente nella storia delle persone, membri della comunità umana, raccogliere testimonianze, esperienze e stimolare ognuno a scegliere ad agire con la parola, la preghiera e/o con le opere, aiuta a prendere consapevolezza di ciò che ci circonda e guida l’audacia dell’agire, che nasce con il sapere.
Benvenuti a tutti, fratelli e sorelle, consapevoli compagni di un viaggio, tra passeggeri e marinai, dove Cristo è sia mezzo che metà.
Molti di noi hanno sperimentato come nel 2020, ma ancora nel 2021, sia stato triste vedere vicini e familiari ammalarsi di un virus in molti casi mortale e non poter fare nulla.
Ma, come ci ricorda don Renato Rosso, missionario in Bangladesh, (Gazzetta d’Alba, 24 gennaio 2021 – Don Renato Rosso, “Voi combattete il Covid-19, ma quanti milioni muoiono per altri virus?”) in altre parti del mondo, meno titolate nei notiziari televisivi e negli articoli dei quotidiani, esistono altri virus, distanti da noi, ben più pericolosi: la malaria, la Tbc, la denutrizione. Nel 2020, solo in Italia le vittime del Covid-19 sono state oltre 75mila, mentre nell’altro mondo (Africa Sub-Sahariana, India, America Latina e Centrale), quasi un milione di persone sono scomparse per la malaria, oltre quattro milioni e mezzo per la Tbc e più di undici milioni per denutrizione (o a causa della fame), senza contare tutti gli altri morti anonimi.
In America o in Europa non era un problema se in Africa o in Asia o in Sudamerica moriva qualche milione di persone in più o in meno per quei virus di cui sopra, o per carestie, o cicloni, o terremoti: vedere i propri raccolti distrutti da un tifone, gli animali che muoiono per la carestia, vedere i figli ammalarsi perché senz’acqua e senza cibo, e poi morire.
La morte di un africano o asiatico non è mai stata un problema, perché valgono poco, apparentemente non producono nemmeno per la loro sopravvivenza e certo molto meno per il mercato. Per una società in cui il primo valore è il denaro, chi non produce è inutile, se non dannoso, perché finisce per mendicare alle porte degli Stati ricchi. Prende posto l’indifferenza, l’emarginazione ma quanti sanno dell’attuale tragedia del popolo Rohingya birmano o del quotidiano omicidio di massa in corso in Congo-Kinshasa? Eppure, il riso coltivato dai Rohingya finisce sui nostri piatti e andiamo fieri degli smartphone, computer e auto elettriche fabbricati con i minerali congolesi. Gli occhi e le orecchie chiusi sull’epidemia di difterite e morbillo dei Rohingya e sull’ebola usata come arma di guerra in Congo-Kinshasa. Un piccolo virus costringe il mondo intero a comprendere cosa succede altrove da molti anni.
L’esperienza del coronavirus ci ha dimostrato che tutti questi problemi sarebbero risolvibili e in tempi brevi. In meno di un anno si è trovato un vaccino contro il Covid-19. Invece il mondo come quello abitato da don Renato Rosso, che è quell’altro mondo, dopo decine di anni continua a essere flagellato da tutti gli altri virus con milioni di morti.
Il mondo occidentale, il mondo economicamente avanzato, tecnologico, perfezionista e poco attento ai guai provocati dalle malattie è stato messo in ginocchio da un virus invisibile, il SARS-CoV2. Soprattutto il nostro mondo avanzato ha cominciato a capire cosa vuol dire dipendere e piegarsi sotto il peso delle malattie.
In questi mesi, su Tv e giornali si è molto parlato dei vaccini, delle statistiche in Italia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti. Abbiamo sentito qualche intervento o tavola rotonda per riflettere sul Terzo mondo? Eppure, là ci sono miliardi di nostri fratelli e sorelle. Negli ultimi vent’anni sono stati fatti molti progressi e questo ci dice che è possibile sperare in un 2021 più umano e più creativo nella solidarietà. Nessuno si scoraggi, dunque, né si lasci vincere dalla paura di non farcela: la consapevolezza di stare “sulla stessa barca”, e di far parte di una umanità in diversi modi fragile e ferita, è stimolo di condivisione e possibilità di speranza e promozione umana. La domanda è dunque lanciata verso tutti i figli dello stesso creato: è forse giunto l’ora di conoscere sia il prossimo che il vero mondo dentro cui viviamo?
Claudio Rainero
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mentre gli evangelisti Marco e Luca sono molto precisi e si dilungano a raccontare le tentazioni di Gesù che combatte satana nel deserto – rinunciando alle seducenti chimere dell’avere, del comandare e dell’apparire come bussole esistenziali – Marco, molto lapidariamente scrive tre parole: “tentato da satana”. Tre parole che dicono tutto. Tre parole che si compiono nell’arco di QUARANTA giorni, dove il quaranta indica una completezza, come il tempo di Mosè sul Sinai, di Elia sul monte Carmelo, del popolo di Israele nel deserto … come dire: una vita! La vita è così, una continua tentazione di cambiare strada dall’inizio alla fine, attratti da quanto anziché darci la vita ce la toglie! Gesù nel deserto scende in un silenzio pieno di frutti che porta a scegliere il Padre e la strada della vita, là dove si avrebbe voglia di volgerGli le spalle a favore del proprio assoluto tornaconto.
Ma Dio è sempre attento a indicare la strada della vita ai suoi figli. Già dall’AT implora il suo popolo di scegliere la vita anziché la morte. Questa settimana nella liturgia delle messe feriali si levava alta la sua supplica a Israele che stava attraversando il deserto nel suo cammino verso la Terra Promessa. Nel Libro del Deuteronomio diceva: “io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità” e poi rincarava e approfondiva il profeta Amos: “Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e il Signore sarà con voi” … Gesù ricorda questa cosa all’uomo dominato dallo spirito impuro nella sinagoga, subito dopo la pagina del deserto appena letta, quando viene accusato: “sei venuto a rovinarci!” … (la stessa accusa che il divisore continua a sussurrare alle nostre orecchie: “è venuto a rovinarti, lasciaLo perdere quel Gesù, cosa stai a sentire il Vangelo, sono tutte storie, non fidarti, pensa a te stesso, invenzioni dei preti, fa come tutti, eh che sarà ?!” Ecc. ecc. ecc … ) … Gesù invece libera quell’uomo per ricordare a lui e a tutti che non è venuto a rovinare noi, ma a rovinare tutto ciò che ci rovina!
E noi, ci crediamo? Sarebbe bello fermarsi cinque minuti, domani o questa settimana, per collegare le nostre tristezze, i nostri sensi di mancanza di compimento, i nostri vuoti con le loro radici: “perchè sto così? Cosa sta generando questo stato delle cose? Le mie scelte portano alla vita o alla morte?”. Chi vorrà scegliere Gesù come “alleato” per darsi delle risposte … potrà trovare sentieri che portano alla vita.
Buon attraversamento a tutti!
Ciao a tutti! Per gli adulti e i giovani l’invito al RITIRO SPIRITUALE DI QUARESIMA, DOMENICA 21 FEBBRAIO ALLE ORE 15,30, guidato da Don Dodo e insieme agli amici di San Cassiano.
Occorre collegarsi al link:
Bravissimi Caterina e Anselme! Che bella questa riflessione! Al primo approccio, l’inserimento della parola “anche” può sembrare insignificante, una formalità, ma voi ci avete dimostrato che così non è! Grazie!
Grazie! Condivido molto questa bellissima riflessione. Sulla stessa barca.
Molto bello e profondo grazie. Mi ha colpito la frase “l’avvicinamento e il riconoscimento della similitudine nella condizione umana genera l’unità che supera ogni conflitto, lascia posto alla fratellanza”. In questo momento storico sembra quasi che tutto questo sbiadisca, si stia allontanando chiudendo occhi, orecchi e cuore. Ma noi ce la faremo. Grazie ancora.